I giovani sono i soggetti più coinvolti nelle grandi transizioni sociali, sia quando il cambiamento si presenta come una stagione di sviluppo, sia quando ha i lineamenti di un processo involutivo, sia quando, come accade anche oggi, nuove sfide e opportunità, rischi inediti, resistenze del passato, sono strettamente intrecciati.
Anche la transizione alla tarda modernità, che l’Europa sta vivendo, si propone anzitutto come una sfida per i giovani. I giovani italiani sono i protagonisti di un passaggio difficile, dominato dal timore che il nostro paese, entrino nel nuovo assetto politico internazionale, e nell’economia globalizzata, con uno slancio troppo debole, frenato dalle inerzie del passato, e mettano a repentaglio la ricchezza accumulata, senza riuscire a cogliere i vantaggi del nuovo scenario europeo e mondiale.
Questa percezione spinge individui e soggetti sociali ad assumere comportamenti difensivi e a frenare ulteriormente il cambiamento. In questo quadro i giovani, che detengono meno risorse e posizioni degli altri, sono le figure sociali più esposte a un cambiamento che, non essendo incanalato in un progetto collettivo, si avvita in un percorso più fragile e rischioso. Il mutamento tocca rapidamente molti aspetti della loro vita: economici, politici e sociali.
Le politiche per i giovani devono essere disegnate a partire dalla conoscenza di questi cambiamenti, e trattarli in modo integrato, per conseguire risultati efficaci. (dallo studio I giovani fra rischi della modernità)
La disoccupazione nella fascia tra i 15 e i 29 anni mostra valori drammatici attestandosi su livelli che superano la soglia del 40%. Le evidenze empiriche a proposito della qualità del lavoro ci dicono che in media, più della metà dei giovani svolge mansioni diverse da quelle per cui è formato. Il “mismatch” di competenze, infatti, nel nostro paese, è stimato intorno al 70%, sia per qualifiche diverse rispetto al proprio lavoro, sia per diplomi e lauree che non mantengono le promesse che sarebbero loro proprie. La conseguenza è spesso quella di percepire stipendi più bassi delle aspettative e di nutrire nel tempo demotivazione e frustrazione che, soprattutto nei soggetti più giovani, si associano a crisi identitarie, perdita di fiducia in se stessi e difficoltà a pensare in termini ottimistici il proprio futuro.
I giovani si trovano in una condizione di doppia fragilità: alla preoccupazione di non rientrare nel mercato del lavoro si aggiunge il mancato sviluppo delle soft skill, così tanto richieste dal mercato del lavoro. Nell’epoca digitale ”industria 4.0 “, quale quella attuale, Il tema dell’occupabilità intesa come abilità a trovare e mantenere un’occupazione sposta l’accento dalle competenze tecnico-specialiste o hard skill, come più recentemente definite, alle competenze trasversali o soft skill.
NEET, acronimo di “Not in Education, Employment or Training” ovvero giovani di età compresa tra i 15 e i 29 che non partecipano né cercano alcun percorso di formazione, istruzione o lavoro. Il rapporto Ocse ‘Uno sguardo sull’istruzione 2017’ ha evidenziato che in Italia i NEET sono il 26% dei giovani ( media Ocse 14,% ). I NEET italiani sono la categoria con le performance più inferiori in termini di competenze: il punteggio medio raggiunto è pari a 242, sotto la media nazionale (punteggio medio 250).
Nella nota statistica “La distanza dal mercato del lavoro ed il rapporto con i Servizi Pubblici per l’Impiego” relativa all’anno 2017, sulla base dell’analisi di microdati ISTAT, ANPAL classifica i NEET in quattro categorie:
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